Qualche tempo fa, una cara amica mi ha riferito di aver
sentito parlare di autostima a proposito di cani, da un
esperto del settore. Poiché lei stessa si dedica
all’educazione dei cani da circa vent’anni
e dato che, oltre al fatto che lavoro in un canile, ogni
tanto mi diletto a leggere di psicologia, mi ha chiesto
perplessa cosa ne pensassi.
Ad essere sincera, ormai non ci faccio neanche più
caso quando al prato, nella sala d’attesa di un
veterinario o nei colloqui d’adozione al canile,
le persone mi parlano di ansia o gelosia riferendosi ai
loro animali domestici. Ma l’autostima
è una vera novità e lascia perplessa anche
me.
Per qualche circostanza fortunata, poco tempo fa, mi è
capitato sottomano (trafugato dal comodino del mio compagno)
Alla ricerca delle coccole perdute di Giulio
Cesare Giacobbe, un libro delizioso che consiglio
a tutti (anche a chi non ha mai posseduto neanche un pesce
rosso) dove l’autore utilizza spesso vividi esempi
tratti dalla vita animale, per sottolineare cosa ci accomuna,
e cosa assolutamente no, alle creature che comunemente
ospitiamo nei nostri appartamenti e dove tratta la questione
dell’autostima in relazione alla complessa evoluzione
che porta il bambino (e non il cucciolo) alla realizzazione
della personalità adulta.
Facendomi guidare da questo testo prezioso e divertente,
e scusandomi in anticipo con l’autore e col lettore
per le semplificazioni (non sono un’esperta di psicologia
né di biologia!), cercherò di dimostrare
come la gran parte dei proprietari di animali domestici,
me compresa (con un cane, dieci gatti e quattro tartarughe
d’acqua, rientro a pieno nella categoria suddetta)
scivolino su interpretazioni basate sulla proiezione di
qualità e sentimenti esclusivamente umani, a giustificare
i comportamenti, graditi o sgraditi, dei loro animali.
Innanzitutto, stando a quanto appreso durante la lettura,
tra umani e animali esiste una differenza fondamentale:
la presenza nel nostro cervello della neocorteccia
che testimonia l’evoluzione biologica e psicologica
della razza umana rispetto alle specie animali. La neocorteccia,
infatti, attiva la funzione del pensiero, dell’immaginazione
e dell’affettività che, solo apparentemente,
è presente negli animali. Quelle deliziose moine
che comunemente interpretiamo come dimostrazioni d’affetto,
sono dunque richieste di cibo, di protezione e anche di
carezze, perché il principio del piacere guida
la vita degli animali, come quella dell’uomo .
Annoiati, privati del gusto della caccia, asessuati perché
sterilizzati, costretti a rimanere per l’intera
esistenza dei cuccioli dipendenti dal loro proprietario,
per lo più rinchiusi nella sua tana, i nostri animali
per appagarsi, nella maniera più graziosa e infallibile
che possono, ci chiedono cibo in continuazione ed è
per questo che spesso finiscono per diventare obesi. I
proprietari, dal canto loro, sono affamati d’affetto
almeno quanto i loro animali domestici lo sono di cibo,
per questo non li scontentano mai e barattano una generosa
razione per ciò che interpretano (o che vogliono
interpretare) come una manifestazione d’amore. La
creazione di costose linee dietetiche per cani e gatti
è un importante segnale d’allarme su questa
situazione.
Ma torniamo alla questione della neocorteccia, dell’affettività
e del ruolo dell’autostima nel processo
umano della crescita. E’ a causa della neocorteccia
se una faccenda apparentemente semplice, come quella del
passaggio dall’infanzia all’età adulta,
che negli animali è il risultato di un istinto,
diventa per noi una cosa estremamente complessa, caratterizzata
da diverse fasi (addirittura cinque!) che, se non superate
correttamente, rischiano di trasformare l’adulto
in un povero nevrotico. Vediamo allora cosa succede agli
animali e cosa agli uomini durante questa trasformazione.
Il cucciolo (in questo caso anche quello umano) è
caratterizzato da una totale mancanza di autosufficienza.
Non è capace di procurarsi il cibo da solo e vive
costantemente nella paura perché non è assolutamente
in grado di affrontare le difficoltà e le minacce
del mondo esterno. Dipende completamente dal genitore
che si prende cura di lui e gli permette di sopravvivere.
Ha un bisogno costante di essere accudito, tanto che la
mamma (ai mammiferi maschi generalmente tocca procacciare
il cibo) vi si dedica a tempo pieno. Le gatte, ad esempio,
allattano i piccoli finché questi ultimi non sono
in grado di alimentarsi da soli. Si dedicano alla ricerca
del cibo per loro stesse solo il tempo necessario e cercano
di rimanere nei paraggi per intervenire in caso di pericolo.
Per circa due mesi, rimangono sdraiate su un fianco con
le mammelle ben esposte, pronte a soddisfare i cuccioli
famelici. Finché hanno latte, e finché i
gattini ne vogliono, gliene danno . Allattando e proteggendo
i loro piccoli, le mamme gatte non solo li rafforzano
nel corpo, ma danno loro quella sicurezza (e non autostima!)
che è indispensabile ai piccoli per diventare adulti.
Sul versante umano, già la semplice la dedizione
alla sopravvivenza del piccolo è ben più
complicata. Quante mamme conosciamo in grado di occuparsi
senza sosta del loro bambino, senza farsi venire un attacco
nervoso all’ennesimo pianto? Quante possono permettersi
di trascurare il lavoro e gli altri impegni per dedicarsi
completamente allo sviluppo della loro creatura? E quante,
al ritorno a casa, riescono a seguire i figli dimenticando
lo stress di un’intera giornata lavorativa? Senza
contare le mode che si susseguono in fatto di alimentazione.
Chi scrive è stata allattata col biberon in un
periodo (la seconda metà degli anni ’60)
in cui si riteneva che il latte artificiale fosse un alimento
“completo” (la stessa cosa che dicono oggi
sul mangime industriale per animali), identico a quello
naturale. Questa opinione all’epoca ha sicuramente
sollevato un certo numero di donne poco portate all’allattamento
al seno, sia per timore di un danneggiamento estetico
che per più seri motivi, ma per fortuna oggi siamo
in piena controtendenza, e l’allattamento naturale
è considerato prezioso sia dal punto di vista della
nutrizione che da quello psicologico (per le fanatiche
poi c’è sempre il bisturi). Infatti, oltre
alla nutrizione e alla difesa, il cucciolo umano ha bisogno
per diventare un adulto sano e in seguito anche un bravo
genitore, d’amore. Durante tutta la crescita, avrà
bisogno di sentirsi voluto, coccolato, apprezzato, incoraggiato.
Un bambino privato dell’amore, diventerà
adulto solo nell’aspetto, rimanendo per tutta la
vita affamato di quei sentimenti e di quella sicurezza
che gli sono mancati quando ne aveva bisogno. Diventerà
facilmente un nevrotico, perennemente alla ricerca di
un genitore sostitutivo pronto a prendersi cura di lui,
ad amarlo, a comprenderlo ed accettarlo. Questo genitore
sostitutivo da cui dipendere per la propria felicità
potrà essere un marito o una moglie, un fidanzato
o una fidanzata, gli amici o il gruppo della parrocchia,
persino il figlio (che perversione!), ma, in mancanza
di surrogati umani, anche l’animale domestico.
Anzi pare che l’animale domestico sia oggigiorno
il fornitore affettivo più diffuso .
L’amore di cui necessita il cucciolo umano per crescere
dovrà manifestarsi sotto forma di stima e ammirazione,
che lo aiuteranno a costruire quella fondamentale fiducia
in se stesso che lo renderà indipendente, non più
bisognoso degli altri. Oltre all’affetto e all’apprezzamento,
il piccolo umano avrà bisogno di un modello di
adulto da memorizzare e imitare quando occorre, dell’esperienza
dello stato adulto che otterrà soltanto con l’allontanamento
dai genitori (anche sotto forma di conflitto), di superare
le difficoltà e di controllare l’ambiente.
Solo allora, quando sarà stato capace di superare
le prove e di affermare se se stesso, l’individuo
umano potrà provare autostima, che niente altro
è che amore per se stesso, finalmente a prescindere
dall’affetto e dal giudizio altrui. Autostima vuol
dire autocentratura, ed è la prova del raggiungimento
della personalità adulta.
I gattini invece (che per fortuna loro non dipendono dall’apprezzamento
degli altri e non hanno neanche problemi con l’Edipo)
una volta nutriti e svezzati, diventano adulti assai più
facilmente. Mamma gatta infatti, una volta che i cuccioli
sono fisicamente in grado, cattura piccole prede (piccole
di dimensioni e non di età e quindi capaci a loro
volta di difendersi agguerritamente) e insegna loro a
cacciare. Quando diventano sufficientemente abili nel
gioco della caccia, li lascia andare e torna ad avere
una vita indipendente, a cacciare per se stessa e ad accoppiarsi
di nuovo. I gattini trasformati da cuccioli in adulti
totalmente indipendenti, saranno in grado di badare a
loro stessi e di procreare a loro volta.
La mamma umana invece, specie in Italia, non lascia mai
volentieri il proprio cucciolo diventare adulto, soprattutto
se maschio. Continua, anche se il figlio è grande
e grosso, ad occuparsi di lui. Nella migliore delle ipotesi,
riordinandogli la stanza, stirandogli le camicie, cucinandogli
squisiti manicaretti, col pretesto che al mondo d’oggi
è difficile trovare un buon posto di lavoro (il
che, purtroppo, è anche vero), nella peggiore,
maltrattandolo o torturandolo psicologicamente, con continui
rimproveri, tanto da fargli credere che non è in
grado di badare a se stesso, cosicché il poveretto
finirà per assecondare il progetto materno di rimanere
genitore a vita. Non è violenza anche questa? Da
qualche parte, Reich scriveva: «Ce lo vedete un
cervo che sevizia il proprio cucciolo?». Figuriamoci.
Semplificando, questa volontà di trattenere a sé
il “cucciolo” umano oltre i tempi necessari
agli apprendimenti fondamentali è un colpo mortale
all’autostima dell’uomo, mentre nell’animale
l’istinto segue il processo naturale fino alla trasformazione
nello stato adulto.
E’ evidente che l’istinto di diventare genitori,
per noi umani, non è sufficiente a renderci realmente
tali, come invece accade agli animali. E la stessa cosa
vale anche per numerosi altri contesti dell’esperienza
umana. La neocorteccia ci ha reso le cose ben più
complesse. Per questo le categorie professionali che si
occupano del benessere animale dovrebbero fare una certa
attenzione a non confondere ulteriormente le idee alla
gente, che le ha già tanto confuse. Attribuire
autostima a un cane o a un gatto non è solo una
forzatura, ma una perversione. Rispettare i nostri animali,
cercare di donare loro una vita felice e dignitosa, significa
in primo luogo capirne i comportamenti dettati dall’istinto
e i bisogni. Vuol dire fare di loro dei compagni di viaggio
e non dei surrogati affettivi, appiccicando loro addosso
le qualità che vorremmo avere noi o che vorremmo
avesse il nostro compagno, nostra madre o nostro padre,
né tanto meno i difetti che davvero hanno il nostro
compagno, nostra madre o nostro padre! Dobbiamo rispettare
la diversità di queste creature straordinarie per
convivere bene con loro. E se proprio ci scappa di astrarre,
una volta abituati a comprendere il comportamento animale
sulla base dell’istinto, proviamo a interpretare
così anche il nostro, ritrovando un po’ di
quella semplicità che sotto sotto invidiamo loro,
perché facciamo di tutto per negarla, camuffarla
e complicarla.